Cani relegati in un’isola di rifiuti, contagiati, per volontà governativa, da un tipo di influenza letale, abbandonati, perseguitati, ma anche capaci di risorgere, organizzarsi e partire alla riscossa. Con L’isola dei cani (Isle of Dogs), il film che ha inaugurato ieri la 68 a edizione della Berlinale, il regista texano Wes Anderson torna a cimentarsi, dopo Fantastic Mister Fox, con il linguaggio dell’animazione stop-motion.
Ma stavolta l’impresa è molto più complessa perché Anderson, che ha lavorato alla sceneggiatura con Roman Coppola, Jason Schwartzman e Kunichi Nomura, si riferisce direttamente alla grande tradizione del cinema giapponese, in testa Kurosawa e poi Ozu, Suzuki fino all’insuperabile maestro Myazaki: «Volevamo raccontare una storia ambientata nel futuro, con un gruppo di cani alfa, tutti con le doti da leader, costretti a vivere in un’isola fatta di immondizia. Amiamo il Giappone e tutta l’ambientazione della vicenda viene da questa passione e da grandi film come Rashomon e Stray Dogs».
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